Si chiamano «piante criminali», senza troppi giri di parole. A buona ragione perché, su trecento usate da sciamani e guaritori, quelle utili a curare sono una ventina. Le altre sono tossiche. Molte, letali. Eppure, da mesi sono gli unici «medicamenti» ai quali ricorre la popolazione del Benin e dei Paesi dell’Africa occidentale che confinano con questo piccolo stato in cui da oltre mezzo secolo svolge la sua missione fra Fiorenzo Priuli, missionario dei Fatebenefratelli all’ospedale San Giovanni di Dio di Tanguieta originario di Capo di Ponte, nel nord del Paese. Per la ricerca della tossicità nelle piante, fra Fiorenzo si avvale della consulenza fitoterapica del farmacista Gian Carlo Merotti di Rogno.

I ventimila nuovi pazienti l’anno, la metà dei quali accede attraverso il pronto soccorso, si sono drasticamente ridimensionati. La pandemia ha ridotto, se non annullato, gli spostamenti in un’area dell’Africa in cui non si riesce a morire di Covid – l’infezione è letale per l’1% della popolazione – perché si muore molto prima a causa di malattie che potrebbero essere curate. «Nei mesi della pandemia, chi arriva in ospedale è talmente grave che difficilmente riesce a sopravvivere – racconta fra Fiorenzo -. È inevitabile, quindi, che sia alto il numero dei feretri in uscita dal nostro obitorio e questo suscita molta impressione. Tant’è che le persone vengono da noi quando è troppo tardi. Prima si rivolgono ai guaritori e agli sciamani. I primi curano per vocazione e sono persone serie anche se, ovviamente, gli strumenti per curare sono inadeguati. Tuttavia, conoscono i loro limiti e quando sanno di non poter far nulla, mandano il paziente in ospedale. Gli sciamani, invece, lo fanno per denaro e restano "aggrappati" al malato fino all’ultimo centesimo, senza curarsi della sua sorte. In sala operatoria operiamo una perforazione di tifo al giorno, soprattutto in bambini dai tre ai quindici anni ed il rischio di morire è altissimo».

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Da mezzo secolo tutti sanno che fra Fiorenzo Priuli di Cemmo di Capo di Ponte è il chirurgo di riferimento di quella vasta area dell’Africa occidentale. Zona sanitaria di riferimento di oltre 200mila abitanti di tre comuni del nord del Benin, ma anche dei Paesi confinanti quali Burkina, Togo, Mali e Nigeria. Perfino dalla Costa d’Avorio le persone si mettono in cammino, percorrendo fino a mille chilometri a piedi, per farsi curare al San Giovanni di Dio dei Fatebenefratelli a Tanguieta dove, lo sanno tutti, «si salvano vite».

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Si salvano, certo, se arrivano ancora in vita. «L’ospedale è in condizioni misere: la pandemia ha fatto letteralmente crollare il numero di accessi agli ambulatori dai quali si riusciva a ricavare il necessario per pagare il personale – racconta fra Fiorenzo -. Ambulatori vuoti ma ospedale pieno di ammalati di tifo, di cirrosi, di malattie infettive. Di Covid, pochi. Il clima ci preserva dall’infezione da SarsCov2. Chi arriva, però, non ha più un soldo perché ha speso tutto dai guaritori. Pensate che in sala operatoria arrivano con bracciali di piume di gallina sacrificata il giorno prima per scongiurare il possibile pericolo che si incontra entrando in ospedale. Con il paradosso che ci sono migliaia di persone a rischio e sul lastrico mentre noi dobbiamo versare quarantamila euro allo Stato. Facciamo fatica ed il rischio è non aver più medicinali sufficienti per curare i malati. A quelli forniti dal governo del Benin si aggiungono i farmaci, e non solo, per un totale di 150mila euro l’anno, che ci vengono donati dagli italiani attraverso l’Uta, l’Associazione benefica che supporta i nostri ospedali africani».

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L’ospedale è in condizioni misere. Lo ripete, fra Fiorenzo, e davanti agli occhi ha l’immagine delle madri con i loro bimbi che giungono in ospedale dopo aver trascorso ore a piedi sulle strade di terra rossa. «Spesso quando entrano in pronto soccorso i piccoli sono già morti e nemmeno li vediamo perché se ne vanno con il loro fagotto appeso sulla schiena – continua -. In ospedale, intanto, litighiamo tra noi per le sacche di sangue: programmiamo uno o più interventi chirurgici in base alle scorte poi, al mattino, ci accorgiamo che qualche collega di notte "ruba" il sangue per far fronte all’emergenza di chi arriva al pronto soccorso. È un dramma etico costante: o lo lascio morire, o rubo il sangue. Rubando, tuttavia, rischio di far morire chi deve essere operato. Lo scorso anno sono morti 122 bambini. Il problema non è il numero dei donatori, ma la sicurezza perché la metà di quello che raccogliamo dobbiamo gettarlo: è accaduto per quello raccolto davanti alla Chiesa cattolica. Nei giorni scorsi, davanti alla moschea, è andata meglio: su 50 sacche, 42 erano sicure. Le dobbiamo validare noi, a nostre spese. Per ciascuna sono cinquanta euro».

dal giornale online: giornaledibrescia.it – Valcamonica
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